La “mascolinità tossica”  -  22 Novembre 2019


Evidentemente fin da bambino ho avuto la fortuna di non essere stato condizionato secondo la logica patriarcale dai miei genitori e mi sono sempre tenuto lontano dalle omologazioni tipiche della Società Occidentale, riuscendo a pensare con la mia testa, mi è sempre piaciuto imparare qualsiasi cosa ma invariabilmente una volta appresa, avevo le mie modifiche da apportare per renderla più pratica, migliore, o semplicemente buona per me…così ad esempio ho imparato a cucinare guardando mia madre, per poi suggerirle di cambiare alcuni ingredienti o l’ordine delle azioni, fino  a diventare un gurmet indipendente…

 

“la mascolinità tossica si ottiene quando si insegna ai bambini e ai ragazzi giovani che non possono esprimere apertamente le loro emozioni, che devono sempre essere duri e che qualsiasi cosa al di là di queste caratteristiche li renderà ‘femminili’, quindi – per estensione – deboli. Quindi non dei veri uomini. Per chiunque si allontani dai valori largamente accettati dalla società, e quindi anche per gli uomini che scelgono di tirare un bel calcio alla mascolinità tossica, l’ostracizzazione è sempre in agguato. Si viene tagliati fuori, guardati male, considerati strani”

 

Questa terminologia non è ancora comune, è usata in ambiente universitario antropologico, ma sta cominciando a diffondersi, e mi ha colpito come la sua tossicità si rilevi benissimo anche in un ambiente considerato già strano come il BDSM, che non mi sembra si sia ancora liberato da questa ottica vetero-patriarcale, dove il Dominante maschio non si può atteggiare ad educato e delicato, o non può appassionarsi a pratiche che qualcuno definisce meno virili, come baciare la propria sottomessa, o farle un cunnilingus, o addirittura provare piacere in qualsiasi azione che coinvolga l’ano…perché, come insegna “50 sfumature” il maschio dominante “non fa l’amore, scopa forte”. Tutto questo mi ha sempre fatto ridere, fuori ed ancor più dentro il BDSM.

 

Perché la mascolinità tossica fa male prima di tutto agli uomini

Benedetta Geddo  - 18 Novembre 2019

https://www.bossy.it/mascolinita-tossica.html?fbclid=IwAR3CVE9FUApbzCnqg_BKrctH1dVU2oibLYi5mz5Gb51_T3xY4nRtiKNBL0c

 

In questi ultimi anni, l’espressione “mascolinità tossica” è uscita dalle aule universitarie dei corsi di antropologia, etnologia e studi di genere, dove era solita dimorare abbastanza esclusivamente, ed è entrata nel linguaggio comune. Oggi se ne sente parlare spesso (pensiamo solo allo spot di Gillette di gennaio 2019), ma proprio perché è un concetto relativamente nuovo al grande pubblico è ancora oscuro ai più.

Un articolo del New York Times, sempre dello scorso gennaio, descrive così la mascolinità tossica:

“Un insieme di comportamenti e credenze che comprendono il sopprimere le emozioni, mascherare il disagio o la tristezza, il mantenere un’apparenza di stoicismo, e la violenza come indicatore di potere (pensate al comportamento da ‘uomo duro’)”

L’articolo prosegue specificando che la mascolinità tossica si ottiene quando si insegna ai bambini e ai ragazzi giovani che non possono esprimere apertamente le loro emozioni, che devono sempre essere duri e che qualsiasi cosa al di là di queste caratteristiche li renderà “femminili”, quindi – per estensione – deboli. Quindi non dei veri uomini.

“I maschi non piangono” è uno degli esempi più classici e comuni di mascolinità tossica, che viene insegnata fin da giovanissimi.

Ecco, la chiave per capire la mascolinità tossica è l’espressione “veri uomini”, in tutte le sue declinazioni: i veri uomini non piangono; i veri uomini si fanno rispettare; i veri uomini non mostrano le loro emozioni; ai veri uomini interessano solo questo sport e questo passatempo, perché tutto il resto è da femminucce.

La mascolinità tossica è l’insieme di criteri che definiscono come un uomo deve essere: tutto il resto non è uomo. Tutto il resto è altro: femminile, debole, disprezzabile. La mascolinità tossica è dunque l’idea che ci sia solo un modo di essere uomini, mentre tutti gli altri sono meno uomini. Uomini di serie B, se non addirittura non-uomini. Effeminati o “emasculated“, ossia “smascolinizzati”. La mascolinità tossica è l’incapacità di accettare che non c’è un modello fisso secondo il quale essere uomini, che chiunque si senta uomo è uomo a modo suo.

La mascolinità tossica, proprio per quest’idea dell’esistenza di uomini di serie A e uomini di serie B, pesa ovviamente ancora di più sugli uomini trans.

Mentre preparavo il mio esame di etnologia in triennale, ho letto un libro intitolato “La genesi del maschile. Modelli culturali di virilità”, del professore americano David Gilmore. Mi ricordo che il testo mi aveva affascinato moltissimo e colpito molto di più di tutti gli altri in elenco, perché mi aveva fatto rendere conto di una cosa che non avevo mai realizzato: lo status di uomo è incredibilmente fragile in moltissime società umane.

 

Gilmore, parafraso e semplifico, descrive la mascolinità, lo status di uomo, come una corsa continua: è difficile da ottenere (diverse società hanno e hanno avuto vari riti d’iniziazione: la prima sigaretta, la prima caccia, la prima esperienza sessuale e via dicendo), ma è invece facilissima da perdere. Un comportamento non ritenuto abbastanza virile, una lacrima una volta superata una certa età, un vestito diverso dal solito e si ritorna al punto zero. Si ritorna a non essere uomini. Ed è forse proprio per questo suo essere costantemente in bilico che la mascolinità è spesso così fragile.

 

Ogni cultura ha la sua forma di mascolinità tossica, la sua idea di “vero uomo” e di non-uomo e i criteri variano di società in società. La grande conseguenza di ciò è l’imprescindibile mancanza di diversità che impone, il soffocamento di qualunque possibilità di variazione dalla norma. In Occidente ai bambini, già fin da quando sono piccoli, si dice che il rosa è da femmine, che sono le bambine a giocare con le bambole mentre a loro devono piacere per forza le macchinine, che i maschietti non piangono, che il calcio è l’unico sport accettabile, che il ballo non è adatto ai bambini maschi. È così che i bambini crescono e diventano ragazzi, giovani e poi adulti incapaci di gestire le loro emozioni o di riconoscerle, che credono che la violenza e la sopraffazione siano l’unico modo di relazionarsi agli altri esseri umani.

Secondo uno studio dell’Istat del 2014, più di 6 milioni di donne tra i sedici e i settant’anni hanno dichiarato di aver subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale, e per più di 2 milioni di quelle donne il colpevole della violenza era il partner o l’ex partner. L’allarmante numero di casi di violenza subita dalle donne è direttamente collegato alla mascolinità tossica, all’idea del “vero uomo”, quello che non si fa mettere i piedi in testa dalla “sua” donna, che domina da padrone assoluto nella relazione, che “mette in riga” la donna disubbidiente anche con le mani. È una questione di potere, dunque: la mascolinità tossica insegna come principio assoluto che il potere appartiene all’uomo e che l’uomo stesso deve cercare il potere, perché solo così può dimostrare al mondo il suo valore.

C’è anche chi parla dell’esistenza della “femminilità tossica”, che però non è altro che un’altra faccia della mascolinità tossica stessa, non un problema a parte, ed entrambe discendono da una e una sola fonte, ossia il sistema patriarcale. Alcuni esempi solitamente riportati come comportamenti tipici della “femminilità tossica” sono: usare le mestruazioni come scusa per un comportamento maleducato o brusco; chiedere aiuto per far fare a un uomo un compito pesante da un punto di vista fisico (spostare scatoloni o portare valigie o cose simili); farsi offrire cene e drink e biglietti del cinema proprio in quanto donna, sapendo che “tanto l’uomo deve pagare sempre”. Ma tutti questi comportamenti rientrano perfettamente nell’idea della donna che il patriarcato ha: emotivamente instabile per colpa del ciclo mestruale, debole fisicamente, indifesa, economicamente dipendente. Ed ecco che il “vero uomo” arriva a salvarla e a farle da scudo, proprio come suggerisce e richiede la mascolinità tossica.

Sono comportamenti dannosi, questi? Certo, perché contribuiscono a tenere le donne nello stesso ciclo di oppressione; ma non possiamo porre su uno stesso piano la mascolinità tossica e la femminilità tossica. Innanzitutto perché le donne non rendono gli uomini oggetto di oppressione e discriminazione performando gli stereotipi del loro genere, come invece fa la mascolinità tossica nei confronti delle donne. E poi perché questi comportamenti sono frutto della stessa mascolinità tossica e del patriarcato: si tratta infatti di misoginia interiorizzata.

Inoltre, la mascolinità tossica ha come obiettivo finale il potere, perché è considerato l’unico modo per trionfare nella società; quella che viene definita come “femminilità tossica” ha invece come traguardo la sopravvivenza: se si insegna alle donne che non sono niente di più del loro corpo e della loro funzione sessuale, per esempio, allora non ci si può stupire che poi comincino a usare entrambi come strumento per tirare avanti. È la società patriarcale in cui viviamo ad aver fatto sì che tutta la femminilità venisse vista come “tossica”, come sbagliata, invalidante, difettosa, come motivo di discriminazione.

“La mascolinità tossica, quando messa in atto dagli uomini sugli uomini, ha l’aspetto della mascolinità tossica. La mascolinità tossica, quando messa in atto dagli uomini sulle donne, ha l’aspetto della misoginia. La mascolinità tossica, quando messa in atto dalle donne sulle donne, ha l’aspetto della misoginia interiorizzata, che si potrebbe chiamare “femminilità tossica” se si decidesse di immaginare che le donne fanno questa roba così, per divertirsi.”
— Katie Anthony, “Is Toxic Femininity A Thing?”

La mascolinità tossica blocca lo sviluppo delle naturali inclinazioni e sentimenti degli uomini, ma fa lo stesso anche con le donne: insegna ai primi a rincorrere il potere e alle seconde a compiacerlo (rappresentando appunto il loro tradizionale e stereotipato ruolo di genere).

Se c’è una cosa che frequentare corsi di etnologia e antropologia mi ha insegnato è che pochissime cose che noi crediamo naturali lo sono davvero. È tutto frutto della cultura, della società in cui siamo stati cresciuti, dell’ambiente che ci circonda, e questo è soprattutto vero per il concetto di genere e i suoi attributi. Sapere dell’esistenza della mascolinità tossica e imparare a riconoscerne i tratti ci aiuta ad andare un passo più in là: sono davvero le donne a essere più inclini a parlare dei loro sentimenti, ad esempio, o è la società che insegna agli uomini che loro dei sentimenti non devono parlare, ma devono ricacciarli giù il più a fondo possibile?

La pressione sociale a conformarsi agli ideali della mascolinità tossica inoltre viene sia dagli uomini che dalle donne, che hanno anche loro interiorizzato i dettami della società patriarcale: se certi uomini prendono in giro un amico perché magari gli è venuto da piangere, certe donne invece lo fanno perché uno è poco palestrato o si depila. Ovviamente, non tutti gli uomini sono affetti dalla mascolinità tossica: c’è chi non è stato cresciuto secondo questi dettami, chi è riuscito a slegarsene da grande, chi ha trovato un buon gruppo di amici con cui essere liberamente se stesso senza tossicità, ma l’ombra di questa pressione sociale resta sempre lì, anche alle spalle di chi non ne è più vittima.

Perché per chiunque si allontani dai valori largamente accettati dalla società, e quindi anche per gli uomini che scelgono di tirare un bel calcio alla mascolinità tossica, l’ostracizzazione è sempre in agguato. Si viene tagliati fuori, guardati male, considerati “strani”.

Nel suo libro ormai diventato un vero e proprio pilastro del femminismo, “Dovremmo essere tutti femministi”, Chimamanda Ngozi Adichie scrive: “Facciamo un grande torto ai maschi educandoli come li educhiamo. Soffochiamo la loro umanità. Diamo alla virilità una definizione molto ristretta. La virilità è una gabbia piccola e rigida dentro cui rinchiudiamo i maschi”. Non potrebbe avere più ragione: la mascolinità tossica è proprio questo, è tossica perché soffoca. Impedisce a un uomo di essere umano, di provare le emozioni che accomunano tutta la nostra specie, e gli impone di essere forte, sempre, costantemente, anche quando invece sente di avere bisogno di sostegno e conforto.

Una delle convinzioni più sbagliate e comunque più diffuse riguardo il femminismo è che favorisca solo le donne, che sia il tentativo di ribaltare la società e mettere le donne in una posizione di potere sopra tutti gli uomini: questa però è veramente la cosa più lontana dal femminismo che si possa concepire. Il femminismo infatti crede nella parità dei sessi e nell’abbattimento degli stereotipi: quelli sulle donne, certo, ma anche quelli sugli uomini.

Sempre Chimamanda Ngozi Adichie ha scritto che vorrebbe che “tutti cominciassimo a sognare e progettare un mondo diverso, più giusto, un mondo di uomini e donne più felici e più fedeli a loro stessi”. Un mondo così è un mondo senza mascolinità tossica, perché non c’è un unico e solo modo per essere uomini e i paletti che come società mettiamo alla virilità non hanno motivo di esistere.

 

Benedetta Geddo Sono nata nel 1994, piemontese, fiera Serpeverde, con una laurea in Giornalismo e la testa nella Terra di Mezzo. Parlo di viaggi e cinema, ascolto moltissima musica coreana, e mi dedico alle mie quattro Cose Fondamentali: spazio, cultura pop, draghi e femminismo.

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